Ospitato nella bellissima area del vecchio gazometro di Roma, la nona edizione della European Maker Faire ha ricucito lo strappo pandemico tra tecnologia e grande pubblico. La manifestazione segue dal 2013 le evoluzioni della tecnologia, del mercato e delle innovazioni che ruotano attorno alla comunità degli inventori e artigiani digitali.

L’area, va detto per i non romani, è anche ricchissima di murales tra i quali spicca l’airone dipinto con vernice mangiasmog dell’italiana Airlite, che depura l’aria come un boschetto di 30 alberi.

C’era grande curiosità nello scoprire come gli enormi cambiamenti nelle direzioni globali, con la discontinuità rappresentata dal Covid, avessero influito sulla narrazione della tecnologia secondo questa grande manifestazione europea.

La Maker Faire è un luogo per “capire come va il mondo e come ciascuno possa inserirsi”, le parole di Alessandro Ranellucci, anche quest’anno curatore scientifico dell’evento. Capire come si è modificata la manifestazione negli anni può aiutare ad interpolare il futuro. La prima cosa che si nota è che l’enorme massa di maker (singoli o in piccoli gruppi) con un tavolo, una stampante 3D, un Arduino e qualche sensore è ormai un ricordo del passato.

Quello spirito making è ora solo in parte libero, ma più spesso ha trovato un percorso diverso. È infatti filtrato nei canali istituzionali, ovvero scuole, università e aziende, che alla Faire espongono progetti e prototipi di grande maturità spesso con componenti IoT e robotica. I progetti degli ITS sono spesso in collaborazione con le aziende. Interessante vetrina è stata anche la robotica presentata nell’area IRIM. “L’open innovation ha semplificato i giochi, includendo chi dalla teoria passa alla pratica, dall’idea al progetto, in maniera sempre più trasversale”, ha concluso Ranellucci.

In gran parte, però, la Faire si è aperta ai grandi contatti, portando notizia e spazi di altre realtà in un tessuto internazionale.

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Destinazione sostenibilità

Lo spirito originale del maker, nell’esposizione della manifestazione, è stato declinato più nel nome della sostenibilità: nuovi approcci al cibo, alla produzione e alla proattività in tutto ciò che si fa -anche nella cura dell’individuo- hanno tenuto banco per lo spettatore attento. Salute, ambiente, cibo stanno vivendo una forte accelerazione, con la nascita di soluzioni che nei flussi normali non trovavano sfogo.

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È quindi nell’area della ampia sostenibilità che il maker tradizionale sta vivendo una sua nuova fase, senza dover avere una stampante 3D e una soluzione per la prototipazione digitale in primo piano.

La stampa di fibre e il grande formato

Vediamo ora alcune realizzazioni presentate come pronte per il grande mercato. È curioso come gran parte degli informatori preferisca riferirsi a curiosità spesso destinate all’oblio invece che far conoscere progetti che vanno a sistema. Sensorworks vuole salvare le infrastrutture italiane con un monitoraggio IoT. Non sono gli unici, neanche in Italia, e forse non hanno la miglior tecnologia in tutti i passaggi, ma stanno bruciando le tappe della scalabilità per avere le dimensioni necessarie per questo tipo di soluzione.

Grande curiosità anche per Mambo, la barca 3Dprinted in vetroresina con tecnologia CFM (Continuous Fiber Manufacturing) che al mondo hanno solo Moi e un altro ente statunitense, secondo quanto afferma Marinella Levi, che presentava il lavoro fatto dal suo dipartimento. Il rapporto con le piccole barche è sempre stato attivo con la Makerfaire: qualche anno fa il centro dello stage lo prese PaperOtto, barca pieghevole italiana.

La stampa 3D in grande formato, che negli ultimi anni era stata applicata a edifici di vario tipo, materiale e ambiente (spazio incluso), era presente alla Faire grazie a 3DiTALY, con un dispositivo e il relativo processo per la stampa 3D in grandi dimensioni in grado di sviluppare parti sculturali, riproduzioni artistiche e componenti scenografiche per cinema, spettacolo, industria manifatturiera.

Che fine ha fatto il maker hobbista?

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Il vessillo del grande making del passato è stato tenuto alto, anzi altissimo, da Massimiliano Aiazzi, con un flipper che occupa 25 metri quadrati ed è composto da circa 7.000 pezzi. Solo la grande passione per molti saperi, incluso quello sulle macchine di Leonardo, possono permettere la realizzazione di pezzi unici straordinari come questo.

Ma che fine ha fatto il movimento degli appassionati hobbisti che doveva cambiare il mondo? ”Il flusso degli appassionati si è ormai fermato, non solo in Italia ma un po’ in tutto il mondo” – dice Giovanni Re, l’artigiano digitale più famoso d’Italia e community manager di Roland “anche Francia, Germania e Stati Uniti, per esempio, si segna il passo”.

Le differenze strutturali tra Paesi potevano fare la differenza, le cose sono andate diversamente. “Ci aspettavamo che in posti come l’Italia, dove ci sono moltissime microimprese, i maker avrebbero trovato humus fertile, ma così non è stato. Gli hobbisti sono rimasti tali e sviluppano un solo prototipo senza farlo diventare un business.

Concludiamo con una nota su area e soprattutto pubblico. Le norme post-Covid e il crollo del vicino Ponte di Ferro hanno reso più travagliato l’accesso all’area, ma in termini reali il successo è stato notevole. “Sono molto felice di come sia andata, con un sold out da oltre ventimila presenze”, ha detto Massimiliano Colella, Direttore Generale di InnovaCamera, l’Azienda Speciale della Camera di Commercio di Roma che dal 2013 organizza la Maker Faire Rome.

“Ringrazio ENI per questo posto magnifico”, ha continuato Colella, un’area in via di riqualificazione dalla quale i romani si attendono molto.