Secondo un report recentemente pubblicato, l’introduzione di robot industriali non solo non ha avuto ricadute negative sul tasso di occupazione in Italia, ma ha contribuito alla crescita delle “attività connesse”. E’ quanto emerge dallo studio “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics”, condotto dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) in collaborazione con l’Università di Trento e l’Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT).

Prendendo in esame il periodo 2011-2018, i ricercatori hanno valutato gli effetti dell’uso di robot industriali sull’occupazione nelle aziende italiane. Ne emerge un quadro molto differenziato a seconda delle mansioni dei lavoratori, che tuttavia sfata il mito dei posti di lavoro persi a causa dei robot. “Le categorie occupazionali potenzialmente esposte al rischio di sostituzione da parte dei robot industriali non sembrano nel loro complesso aver risentito dell’introduzione di questi ultimi”, spiega il report.

D’altro canto, i posti di lavoro destinati agli “addetti ai robot”, ovvero le figure professionali che si occupano di programmazione, installazione e manutenzione dei robot, sono aumentati di circa il 50% nel periodo in esame, con un aumento significativamente maggiore nelle aree caratterizzate da un ricorso più intenso ai robot industriali.

Il reinstatement effect

Secondo l’indagine un aumento dell’1% nell’adozione di robot ha portato a un incremento di 0,29 punti percentuali nella quota locale di operatori di robot. Il risultato è la naturale conseguenza del fatto che, a fronte di maggiori investimenti in robot da parte delle imprese, aumentano anche le figure professionali necessarie a svolgere le attività complementari, un fenomeno noto come reinstatement effect.

Questa indagine è molto significativa perché dimostra che non bisogna avere paura dei robot, che possono costituire più un’opportunità che uno svantaggio per il mondo del lavoro”, ha dichiarato Sebastiano Fadda, presidente dell’INAPP. “D’altra parte la tecnologia pervade già ogni ambito professionale con esiti diversi a seconda delle situazioni, dalla medicina all’agricoltura, dalla meccanica al settore assicurativo. I robot già ora rendono il lavoro più efficiente e al tempo stesso esonerano le persone da compiti ripetitivi, poco qualificanti e usuranti, permettendo loro di occuparsi di mansioni più gratificanti (e produttive)”.

La necessità di un profondo reskilling

Se da un lato l’uso dei robot porta alla necessità di nuove figure professionali che sappiano gestirli, dall’altro rimane aperta la questione “di tutte quelle occupazioni che vanno riqualificate con un profondo reskilling proprio per l’utilizzo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale”, ha sottolineato Fadda. “Se nel secolo scorso il conflitto fra capitalisti ed operai è stato molto aspro, oggi e in futuro bisogna evitare un nuovo conflitto tra robot e lavoratori, ma bisogna impegnarsi nell’elaborare appropriate strategie affinché la riduzione dei coefficienti tecnici di produzione legata alle nuove tecnologie non dia luogo al fenomeno della disoccupazione tecnologica”.

La robotizzazione è uno dei numerosi global driver che, influendo su imprese, lavoratori e territori, contribuisce a modificare il tessuto socio-economico italiano. L’analisi empirica di questi fenomeni globali è un elemento imprescindibile per individuare soluzioni di policy efficaci e per procedere con il reskilling, ancora più urgente in considerazione dei cambiamenti indotti dalla pandemia”, ha confermato Stefano Schiavo, Direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento. “Anche per questo la relazione tra Covid e automation è già ora oggetto di ulteriori approfondimenti da parte dei colleghi che hanno condotto lo studio”.