Microsoft stacca la spina al programma di sorveglianza israeliano: un monito sulla dipendenza tecnologica

Negli ultimi giorni Microsoft è finita al centro di una vicenda che intreccia tecnologia, geopolitica e diritti umani. Secondo quanto riportato dal quotidiano britannico The Guardian, l’esercito israeliano avrebbe utilizzato la piattaforma cloud Azure per condurre un’operazione di sorveglianza di massa contro i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. L’inchiesta, che cita documenti riservati, ha spinto il presidente di Microsoft, Brad Smith, ad annunciare il taglio di alcuni servizi forniti al Ministero della Difesa israeliano (IMOD), pur sottolineando che la sorveglianza prosegue ora su infrastrutture di Amazon Web Services.
Il report del The Guardian descrive nel dettaglio le attività di Unit 8200, l’unità di intelligence elettronica israeliana spesso paragonata alla NSA statunitense. A partire dal 2022, questa divisione avrebbe raccolto e archiviato su server Azure nei Paesi Bassi un’enorme quantità di comunicazioni telefoniche provenienti dai territori occupati: si parla di un flusso capace di registrare fino a un milione di chiamate all’ora, accumulando un archivio di circa 8.000 terabyte di dati.
Attraverso sistemi di intelligenza artificiale, i dati sarebbero stati classificati, analizzati e sfruttati per identificare obiettivi sensibili nelle operazioni militari. In pratica, una piattaforma di sorveglianza continua che forniva un monitoraggio costante della popolazione palestinese.
La reazione di Microsoft
In un post pubblico, Smith ha dichiarato che Microsoft ha deciso di interrompere e disabilitare determinati abbonamenti e servizi legati al Ministero della Difesa israeliano, in particolare per quanto riguarda archiviazione cloud e tecnologie IA potenzialmente impiegabili per la sorveglianza di massa.
Smith ha spiegato che Microsoft ha avviato una revisione interna dei contratti e della documentazione, specificando che l’azienda non ha mai avuto accesso diretto ai contenuti raccolti da IMOD, ma che il controllo ha riguardato le proprie pratiche commerciali e i registri interni. L’obiettivo dichiarato è garantire il rispetto delle condizioni di servizio, che vietano l’utilizzo delle tecnologie Microsoft per finalità di sorveglianza civile su larga scala.
Nel comunicato, Smith ha ringraziato il Guardian per aver portato alla luce la vicenda e ha ribadito la posizione etica di Redmond: “Non forniamo tecnologie destinate a facilitare la sorveglianza di massa dei civili. Lo abbiamo ripetuto per oltre due decenni e continuiamo ad applicare questo principio in tutto il mondo”.
Proteste interne e pressioni degli investitori
La decisione di Microsoft arriva in un contesto di crescente tensione interna ed esterna. Più di 1.000 dipendenti avevano firmato la petizione No Azure for Apartheid, chiedendo alla dirigenza di interrompere ogni collaborazione con l’esercito israeliano. Alcuni dipendenti, invece, hanno scelto la via della protesta pubblica e, secondo indiscrezioni, quattro di loro sarebbero stati licenziati per aver denunciato apertamente l’uso della tecnologia Microsoft nel conflitto. Anche gli investitori hanno espresso preoccupazioni, temendo ripercussioni reputazionali e legali legate al coinvolgimento di Redmond nelle operazioni militari in Medio Oriente.
Il taglio dei servizi da parte di Microsoft non avrebbe però messo fine al programma di sorveglianza. Le stesse fonti indicano che la piattaforma utilizzata da Unit 8200 è stata rapidamente spostata su Amazon Web Services, continuando a funzionare con modalità analoghe. Al momento, né Amazon né il Ministero della Difesa israeliano hanno rilasciato commenti ufficiali sulla vicenda.
La scelta di migrare il sistema solleva interrogativi più ampi sul ruolo dei giganti tecnologici statunitensi nel conflitto israelo-palestinese. Dopo il caso di Microsoft, anche Amazon e Google sono infatti finite sotto la lente di osservazione in particolare per il controverso Project Nimbus, contratto governativo congiunto che prevedrebbe il supporto tecnologico all’esercito israeliano.
Un problema etico globale per Big Tech
Non è la prima volta che colossi della Silicon Valley si trovano coinvolti in dinamiche belliche. Lo scorso aprile, Google ha licenziato 28 dipendenti che avevano organizzato sit-in negli uffici di New York e California contro la collaborazione con il governo israeliano. Anche in quel caso, le proteste vertevano sulla presunta complicità delle infrastrutture cloud nell’alimentare il conflitto.
La vicenda Microsoft solleva quindi questioni cruciali sul ruolo delle aziende tecnologiche nelle guerre moderne. I servizi cloud, nati per supportare aziende e utenti privati, possono essere facilmente riconvertiti a usi strategici e militari, sfuggendo ai controlli preventivi delle stesse società che li forniscono.
Smith ha voluto sottolineare che, almeno dal punto di vista legale, Microsoft non ha infranto le proprie regole interne, ma la pressione dell’opinione pubblica e dei media ha costretto l’azienda a prendere provvedimenti. Una linea che ricorda la tensione permanente tra business globale, responsabilità etica e richieste dei governi.
Resta il fatto che anche se si può essere d’accordo con le motivazioni di Microsoft, il fatto che un’azienda privata possa disabilitare un servizio utilizzato da un esercito straniero in base a suoi criteri interni solleva riflessioni sulla dipendenza degli Stati da tecnologie che non controlliamo. Lo abbiamo già visto nel caso di Starlink in Ucraina e, considerando quanto la guerra sia sempre più legata alla tecnologia digitale, continueremo a vederlo in altri conflitti.
(Immagine in apertura: Shutterstock)