L’ONU vara la convenzione di Hanoi contro il cybercrimine, tra i timori per privacy e libertà di parola online

La prima Convenzione globale delle Nazioni Unite contro la criminalità informatica rappresenta uno dei passaggi più ambiziosi e delicati nella regolamentazione del cyberspazio. Presentata come lo strumento internazionale in grado di coordinare gli sforzi contro il cybercrime e frutto di cinque anni di lavoro, la Convenzione ha visto l’adesione di 72 Paesi che hanno apposto la propria firma nel corso della cerimonia ufficiale ad Hanoi.
L’obiettivo è prevenire in modo più efficace i reati informatici, promuovere una cooperazione internazionale strutturata e offrire supporto tecnico e capacità operative ai Paesi in via di sviluppo. Si tratta di una roadmap ambiziosa che mira a colmare le profonde disuguaglianze tra i Paesi nella capacità di risposta agli attacchi digitali, sempre più sofisticati e transnazionali.
La natura del cybercrime rende evidente l’urgenza di un accordo multilaterale. I dati sensibili non hanno infatti confini, i server possono trovarsi in Paesi terzi e i criminali possono operare nel totale anonimato sfruttando falle normative e tecnologiche. La Convenzione intende creare una base legale comune per lo scambio rapido di prove digitali e l’assistenza giudiziaria tra Stati. Proprio la condivisione delle prove è stata indicata dal Segretario Generale ONU António Guterres come la principale svolta del nuovo trattato, in quanto elimina uno degli ostacoli storici nella lotta alla criminalità informatica come l’impossibilità di agire quando infrastrutture, vittime e responsabili sono distribuiti in giurisdizioni differenti.
Tuttavia, a fronte di un consenso formale ampio, le critiche non si sono fatte attendere. Organizzazioni come Electronic Frontier Foundation, Human Rights Watch e Privacy International denunciano che, dietro l’apparente finalità di contrastare i reati digitali, si nasconda un’espansione significativa dei poteri di sorveglianza statale.
Il testo, secondo questi e altri suoi critici, obbligherebbe i Paesi firmatari a introdurre strumenti invasivi di intercettazione e monitoraggio elettronico anche per reati che non coinvolgono sistemi informatici, senza adeguate garanzie di tutela dei diritti fondamentali. Una prospettiva che per molti osservatori configura il rischio di un impiego indiscriminato degli strumenti previsti dalla Convenzione per reprimere dissenso politico, giornalismo investigativo o libertà di espressione.
Sorprende che anche un colosso tecnologico come Cisco manifesti riserve simili. Non si tratta quindi di un confronto ideologico tra Stati e attivisti, ma di un fronte critico che include anche player industriali consapevoli del potenziale impatto di normative troppo invasive sulla fiducia digitale e sull’integrità del mercato. Eric Wenger, direttore delle politiche tecnologiche di Cisco, ha esplicitamente affermato che il testo rischia di compromettere lo Stato di diritto, qualora non vengano introdotte salvaguardie chiare e vincolanti sul fronte dei diritti umani e della protezione dei dati personali.
Il paradosso più evidente riguarda la retorica utilizzata dalle Nazioni Unite per presentare la Convenzione, descritta come un “impegno a proteggere dignità, sicurezza e privacy degli individui, online tanto quanto offline”. A livello politico e diplomatico, questa narrazione appare necessaria per legittimare l’accordo. Ma le disposizioni operative, secondo i critici, nascondono un’espansione del potere statale sulle infrastrutture digitali, giustificata dal contrasto al crimine ma potenzialmente utilizzabile per finalità molto meno trasparenti.
Questo dualismo rende la Convenzione un campo di battaglia geopolitico e culturale. Da un lato, Paesi democratici e autoritari firmano lo stesso documento, ma con intenzioni e livelli di implementazione che potrebbero differire enormemente. Dall’altro, la ratifica e l’adozione concreta delle norme prevederanno l’approvazione di leggi nazionali che potrebbero accentuare o attenuare la portata restrittiva del trattato.
Guterres ha insistito sulla necessità di una ratifica tempestiva, affermando che la vera forza della Convenzione risiederà nell’azione concreta più che nella firma simbolica. Ma proprio questo passaggio apre scenari inquieti visto che, una volta approvata, la Convenzione diventerà uno strumento legalmente vincolante, con effetti potenzialmente irreversibili sulla governance globale del cyberspazio.
Un ulteriore elemento di tensione riguarda la posizione dei Paesi firmatari. Anche se l’elenco completo non è stato ancora reso noto dalle Nazioni Unite, si sa che tra essi figurano Cina, Iran e altre nazioni con un approccio fortemente centralizzato al controllo dell’informazione digitale. Il rischio è che lo stesso strumento nato per prevenire la criminalità informatica venga utilizzato per legittimare pratiche di sorveglianza di massa e repressione delle opposizioni politiche.
Al tempo stesso, non si può negare che la criminalità online rappresenti una minaccia crescente in grado di compromettere infrastrutture critiche, economie nazionali e sistemi sanitari. Il cybercrime non è più un fenomeno marginale o confinato agli attacchi ransomware, ma una componente strategica di conflitti geopolitici, guerra ibrida e spionaggio industriale. È quindi evidente come una risposta coordinata sia necessaria, ma resta fondamentale che tale risposta non comprometta principi democratici consolidati.
Il futuro della Convenzione si giocherà sul terreno dell’implementazione pratica. Molti Stati potrebbero usare la firma come atto diplomatico, senza approvare leggi nazionali vincolanti o introducendo deroghe significative, mentre altri potrebbero cogliere l’opportunità per rafforzare il controllo statale sul traffico digitale.
(Immagine in apertura: Shutterstock)

