Si è tenuto la scorsa settimana a Milano lo European HR Director Summit 2015, evento rivolto ai direttori delle risorse umane organizzato da Business International. Una due giorni di lavoro, dibattito e networking con l’obiettivo di creare un benchmark tra Italia e Europa e discutere gli aspetti di maggiore spicco e attualità in ambito HR.

Tra gli argomenti più caldi trattati ci sono sicuramente le novità normative, a partire dal Jobs Act, ma anche i cambiamenti socio-culturali che cambiano il modo in cui oggi vediamo il lavoro, lo smart working, l’innovazione generata dalla funzione HR, l’engagement, la gestione dei talenti e le tecnologie informatiche a supporto della funzione risorse umane.

Abbiamo avuto modo di discutere con l’Avv. Prof. Francesco Rotondi dello Studio Legale LABLAW, che è intervenuto nella sessione plenaria intitolata “The future of the work” sulle novità, o meglio le “non novità”, introdotte recentemente in dal Jobs Act in materia di controllo a distanza dei dipendenti, argomento che ha possibili punti di contatto e conflitto con le legittime attività di monitoraggio dell’uso delle apparecchiature aziendali fatte dai reparti IT per salvaguardare la sicurezza e l’efficienza dell’infrastruttura.

Il Jobs Act ha in effetti modificato l’articolo 4 della legge 300/1970 (lo Statuto dei Lavoratori), che riguarda questo aspetto, ma i cambiamenti sono di portata molto minore rispetto a quanto erroneamente creduto da alcuni osservatori.

Rimane infatti l’obbligo di accordo sindacale per poter installare sistemi di videosorveglianza sul posto di lavoro, o anche sistemi che indirettamente potessero gestire informazioni atte a operare un controllo a distanza delle attività del dipendente.

La novità è che l’obbligo di accordo non è più necessario per “gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e per gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.

Secondo il Prof. Rotondi, il vero problema è che a tutto ciò manca un pezzo. La legge delega prevedeva che si tenessero in considerazione le evoluzioni tecnologiche degli strumenti di lavoro, ma il decreto non lo ha fatto.

È come se, quando parla di strumenti di lavoro, il legislatore pensasse ancora alle macchine utensili. Una concezione ottocentesca.

“Un cellulare, l’auto aziendale, il pc sono tutti strumenti oggi necessari a moltissimi lavoratori, ma si può dire che rappresentino strumenti usati dal lavoratore per rendere la propria prestazione lavorativa? Perché tutti questi strumenti oggi consentono di rilevare informazioni, per esempio sulla posizione GPS, sul numero di connessioni effettuate e verso chi, sugli orari in cui vengono utilizzati e molto altro. Tutte informazioni, che possono costituire una forma di controllo a distanza”, dice il Prof. Rotondi.

Certo, nel caso di uno spedizioniere o un commesso viaggiatore è chiaro che il veicolo sia strumento di lavoro, ma nel caso dell’auto concessa come benefit a quadri e dirigenti? E il cellulare aziendale dato in uso a un impiegato della contabilità?

Esistono molti validi motivi per monitorare l’utilizzo di quei dispositivi, senza per questo voler operare un controllo a distanza. Per esempio, l’attivazione di connessioni internet in orari inconsueti, l’improvviso upload di grandi quantità di dati o l’accesso a risorse informatiche da posizioni geografiche non coerenti con l’operazione fatta sono tutti criteri usati dai moderni sistemi aziendali antimalware, di intrusion detection e data loss prevention. Si possono usare quei sistemi in azienda oppure no? La risposta purtroppo è: “forse”.

“Purtroppo la legge non ha minimamente tenuto in considerazione questi aspetti, e questo pone un problema alle aziende, che non possono avere la certezza di operare nella legalità. Si dovranno attendere le prime sentenze su tali temi per cercare di capire quale sarà l’interpretazione che i giudici daranno alla disposizione di legge” – prosegue Rotondi – “ma neanche questo darà garanzie, perché l’interpretazione di un giudice potrebbe un altro giudice, con la diretta conseguenza di interpretazioni differenti anche nell’ambito dello stesso Tribunale.

Ovviamente, l’illiceità – e le cause conseguenti – emergono solo se si intende utilizzare il dato ai fini di controllo, per esempio per contestare un comportamento del dipendente contrario ai regolamenti e agli interessi dell’azienda. All’azienda che – magari anche involontariamente – si trovasse a conoscere informazioni, basterebbe non utilizzarle.

È certo però che questa incertezza normativa complica moltissimo la posizione di tutti gli interessati: legale rappresentante, ufficio del personale, reparto IT e non ultimo il  dipendente.