Da 16 anni, l’agenzia Grandangolo Communications organizza il Forum IT, momento di incontro tra i manager dei suoi clienti e la stampa e incentrato su tendenze e prospettive del settore ICT. L’edizione di quest’anno ha avuto come tema principale la cosiddetta “digital transformation”, cioè la tendenza a far pervadere ogni aspetto dell’attività produttiva aziendale dalle nuove tecnologie abilitanti del digitale. I filoni trainanti sono ovviamente Social Media, Big Data, Mobility, Servizi Cloud e Smart City.

Il punto è: le aziende italiane si stanno muovendo abbastanza in questi campi? Secondo i dati di una ricerca di Context sui risultati della distribuzione IT in Europa nel primo trimestre 2015 presentata dalla country manager italiana Isabel Aranda, qualcosa si sta muovendo e ci sono segnali confortanti.  Complessivamente, il mercato cresce in media del 7%, ma l’Italia sta crescendo a un tasso quasi doppio: 13,4%. I principali motori sono telecomunicazioni (+112%), data center networking & security (+27%) e server (+16%). Calano invece gli investimenti sui sistemi operativi, applicazioni office e licenze software.

L’innovazione fa 90

Ma qual è il vero atteggiamento delle aziende dietro a questi numeri? Stanno spendendo bene i loro soldi? Stanno innovando davvero? Le sensazioni e le opinioni dei player partecipanti al Forum sono contrastanti. Da un lato le aziende esprimono l’urgenza di trasformare la propria infrastruttura, processo produttivo e offerta complessiva al comsumatore, ma dall’altro hanno paura nell’attuare scelte che differiscono dalle abitudini consolidate e sono alla ricerca di una guida, interna o esterna. Per Franco Coin, CEO di Gruppo MHT (implementazione di ERP e CRM Microsoft Dynamics), “le aziende percepiscono l’emergere di una nuova categoria di consumatori e lavoratori, con esigenze diverse dalle solite, ma non sanno bene come indirizzare le loro aspettative. Guardano al CIO o all’IT Manager, che però non sempre è preparato su questi temi. E rischiano di dare retta a persone con idee magari valide, ma poca esperienza. Del resto, come tutti quelli che hanno tirato due calci a un pallone si sentono allenatori, oggi chiunque usi uno smartphone si sente qualificato a dare consigli strategici sul business digitale”. Coin però è fiducioso: “Le aziende hanno paura della tecnologia nuova, e sanno che la trasformazione richiederà sacrifici economici e organizzativi, ma sono disposte a soffrire un po’ per far funzionare meglio gli affari in futuro”.

Anche Valter Villa, country manager di Riverbed (appliance e software per l’analisi del traffico di rete e l’ottimizzazione Wan), evidenzia un comportamento ambivalente. Capita sempre più spesso che, dopo una lunga analisi e contrattazione per la fornitura di prodotti o servizi in grado di ridurre l’occupazione di banda dei dati aziendali, e malgrado la dimostrazione pratica dei risultati che si possono ottenere, “spesso il CIO preferisce non rischiare e continuare a fare quel che ha sempre fatto quando il collegamento Wan diventa troppo lento: acquistare più banda. Anche se questa soluzione è più costosa e non riduce le inefficienze”.

Data center da rottamare? No, da virtualizzare

Per Paolo Lossa, Regional Director di Brocade Italia e Iberia, uno dei freni all’innovazione consiste nel fatto che “la maggior parte del budget IT è destinato alla gestione e mantenimento dell’infrastruttura esistente, che non è più adeguata. Oggi non è più possibile per il data center evitare l’inevitabile, provando a ottenere il massimo dalle infrastrutture legacy. Sono necessari cambiamenti fondamentali per prepararsi al futuro e per valutare le future esigenze”. Negli ultimi anni, molte aziende hanno recuperato budget lavorando per ottimizzare le prestazioni del data center grazie alla virtualizzazione dei server. Per Brocade, il passo successivo, che potrebbe liberare altrettante risorse, è quello della virtualizzazione dell’infrastruttura di rete. “Prevediamo che nei prossimi anni il Software Defined Networking (SDN) e la Network Functions Virtualization (NFV) diventino parte di un cambiamento più ampio e generale verso reti IP virtualizzate che promettono risparmi reali su costi capex e opex”. L’innovazione del New IP di Brocade infatti non è solamente tecnologica, ma anche commerciale, perché prevede un modello Pay per Use senza costi di gestione o disattivazione.

Sempre rimanendo in ambito Data Center, Emiliano Cevenini, Vice President Sales AC Power di Emerson Network Power EMEA (soluzioni per la continuità, la dissipazione termica e l’efficienza energetica dei data center) nota un cambiamento nelle richieste delle aziende italiane. “Se fino a qualche anno fa, erano interessate soprattutto alla garanzia della continuità operativa, ora stanno spostando l’attenzione anche sull’efficienza energetica e sul costo totale della soluzione a 10 anni. Questo malgrado l’indagine Data Center 2025 condotta da Emerson su oltre 800 professionisti delinei un inferiore bisogno di energia per produrre lo stesso livello di capacità di elaborazione disponibile oggi”.

Internet delle cose: opportunità, difficoltà e rischi

Che la IoT sia uno dei filoni in maggiore crescita è fuori di dubbio, ma sono ancora molti gli ostacoli da superare, ed è opportuno valutare bene i rischi connessi a una rete sempre più vasta e sfilacciata. Il primo ostacolo è rappresentato dall’assenza di uno standard unico consolidato per lo scambio di informazioni tra “smart things” come sensori, attuatori e controller. In ambito utility per esempio, ogni rete ha una sua infrastruttura di comunicazione e un suo protocollo. L’esperienza dimostra che è molto difficile far convivere due sistemi sulla stessa infrastruttura. Come fare allora per accentrare le informazioni in arrivo dai canali più diversi? Ci ha pensato SinTau, azienda Aquilana di recente fondazione che ha progettato Grupius, un hub modulare in grado di supportare i più diffusi standard di comunicazione in campo IoT, specialmente nell’ambito del monitoraggio dei sistemi di distribuzione energetica, accentrarli e trasferirli via Wi-Fi, Ethernet o rete cellulare a un centro di controllo. L’azienda al momento si è concentrata sullo sviluppo delle soluzioni hardware e software e la registrazione dei relativi brevetti. Al momento sta valutando quale debba essere il prossimo passo: se rimanere focalizzata sulla fase di ricerca e sviluppo, o cominciare una produzione propria.

Panda Security ha posto invece l’accento sull’aspetto della sicurezza in un mondo dove i dispositivi da proteggere non sono più uno, due o tre per utente, ma qualche decina, e con i sistemi operativi e le applicazioni più disparate. Per Antonio Falzoni, Product Marketing Manager di Panda Security Italia, è necessario che elementi di sicurezza siano inclusi nell’hardware dei dispositivi IoT, che dovrebbero avere funzioni e scopi ben definiti, limitati e controllati dall’utente, ma c’è spazio anche per servizi SaaS in grado di gestire tutti gli aspetti di sicurezza di un mondo fatto da oggetti connessi. “È recente la notizia di una nota casa automobilistica che ha richiamato oltre due milioni di vetture – sottolinea Falzoni – per ripristinare il sistema informatico e risolvere una vulnerabilità che avrebbe consentito a un hacker di ottenere l’accesso a una o tutte le “Connected Car” di un determinato modello e di una specifica area geografica, per modificarne i parametri di funzionamento, dallo sblocco delle porte all’azionamento dei freni.”