Restituire tempo alle persone privilegiando un modello di lavoro più “smart” e meno “ibrido”. E’ la proposta di David Bevilacqua che, nel suo libro Ibridomania, edito da GueriniNext, si interroga sul futuro del lavoro e sulle scelte più adatte per recuperare quel bene prezioso – il tempo – che il digitale prima e la corsa all’ibridazione poi sembrano averci sottratto.

Ibridomania David BevilacquaLa differenza tra quanto promesso e lo scenario attuale sono il punto di partenza per delineare un futuro del lavoro che rispetta la separazione di ambito professionale e privato, evitando un’ibridazione innaturale tra i due e dando a ciascuno il giusto ritmo. Un futuro che dipende dalla consapevolezza di ciascuno, ma anche da una cultura manageriale “anti-ibrida”, che passa “dall’idea di saturare il tempo a quella di restituire il tempo ai propri collaboratori”.

Attingendo alla sua esperienza come manager IT David Bevilacqua, oggi CEO di Ammagamma, propone di fare “unbundling” e “rebundling” per rinnovare le modalità di lavoro creando un rapporto armonioso con i tempi e gli spazi della nostra vita, come ci racconta in questa intervista.

Da dove è nata la riflessione sul lavoro ibrido?

Mi ha colpito il fatto che quasi tutte le aziende comunicano in modo univoco che “il futuro del lavoro è ibrido”. Personalmente la parola ibrido mi fa pensare a elementi eterogenei che, messi insieme a forza, si depotenziano e generano un compromesso. Penso per esempio alla mia moto Enduro: non va bene su strada come una moto da strada e non va bene su sterrato come una moto da cross. E’ un compromesso, quindi bene…ma non benissimo.

E se parliamo di futuro del lavoro, dobbiamo scegliere parole che ispirano verso qualcosa di positivo. Ibrido non ispira, non emoziona, anzi fa preoccupare.

Il passaggio successivo è dal lessico al semantica, perché cambiando le parole si passa a un nuovo significato. Perché, se prima parlavamo di smart working, adesso che i tempi sono maturi per dargli sostanza non ne parliamo più e abbiamo introdotto l’idea dell’hybrid working? E’ un’abitudine italiana prendere parole anglosassoni e introdurle nel nostro lessico, ma in questo caso abbiamo scelto termini poco ispirazionali per connotare un concetto così importante come il lavoro, che poi coinvolge le vite e le storie di uomini e di donne.

Passando dal lessico alla semantica, quali sono le differenze sostanziali tra smart working e lavoro ibrido?

Personalmente sono un interprete da oltre vent’anni dello smart working e continuo a sostenerlo. Secondo la mia visione al centro dello smart working c’è ancora l’ufficio, il luogo dove avvengono quegli incontri e scambi che, è dimostrato, favoriscono la produttività. Lavorare da casa dovrebbe essere una scelta libera, in base alle proprie esigenze: lo smart working mantiene al centro l’individuo e la sua libertà di scegliere il luogo da cui lavorare.

Mi sembra invece che l’ibrido spinga molto verso una dimensione tecno-centrica, in cui la tecnologia diventa talmente efficace da sostituire totalmente (qualcuno usa il termine “potenziare”) l’esperienza fisica. A questo punto l’ufficio non ha più ragione di esistere e quindi sostanzialmente lavoriamo da casa. Ma l’hybrid workplace ibrida solo la casa, non l’ufficio, ed è proprio questo il problema. Poiché la maggior parte degli italiani vive in appartamenti di 84 metri quadrati, in media, ospitare il lavoro a casa in modo semipermanente significa non avere gli spazi giusti per svolgere le proprie attività e dover sempre sacrificare qualcosa.

E crea anche delle iniquità. Per esempio economiche: a parità di carico di lavoro, chi ha disposizione spazi più grandi o meglio attrezzati può lavorare meglio, e quindi è avvantaggiato rispetto ad altri. E poi disparità di genere. Da anni proclamiamo l’importanza di dare le stesse opportunità a uomini e donne, ma riportando il lavoro in casa sappiamo che il carico del welfare ricade sulle donne. E’ un passo indietro.

La casa è poi il luogo delle interferenze, dove possiamo essere distratti dalla consegna di un corriere, dai cani che abbaiano, da un vicino batterista che sta facendo le prove. E quindi spesso la nostra attività lavorativa da casa subisce una serie di interferenze e di rotture del ritmo che normalmente non avvengono in uno spazio progettato e attrezzato per il lavoro.

Il lavoro ibrido ibrida solo la casa, che è il luogo delle interferenze

Un concetto centrale nel suo libro è ritrovare il ritmo. Cosa significa? E qual è il ruolo dello smart working nel ritrovare il ritmo?

Come spiega nella prefazione Daniele Agiman, Direttore Artistico dell’Orchestra Sinfonica Rossini di Pesaro, il ritmo è “dentro al tempo”, non fuori. Questo significa che sia il lavoro che la vita privata devono svilupparsi attraverso un determinato ritmo. L’abitudine di essere sempre connessi, aggiunta al fatto di lavorare da casa, comporta che siamo sempre disponibili. Ma una telefonata di lavoro che arriva mentre siamo con la nostra famiglia, non porta via solo qualche minuto: interrompe il ritmo emotivo di quel momento.

Per questo anziché ibridare casa e lavoro, ed è la contro tesi che propongo, dovremmo fare quello che fa il digitale quando entra nei processi aziendali, ovvero “unbundling” e “rebundling”, separare e ricomporre i livelli e gli spazi, dedicare dei momenti al lavoro e dei momenti alla vita privata, senza ibridare tutto e sovrapporre i diversi momenti.

Con uno smart working ben gestito le aziende possono lasciare la disponibilità e la libertà alle persone di decidere autonomamente dove lavorare, senza costringerle a lavorare da casa o viceversa ad andare in ufficio. La pandemia ha dimostrato che le aziende si possono fidare dei loro collaboratori, non hanno bisogno di controllarli. A questo punto, è possibile realizzare il vero smart working, in cui la persona sceglie da dove lavorare e, oltre alla propria casa, ha a disposizione un ufficio. Ma dobbiamo ripensare anche al luogo fisico dell’ufficio. Sono contrario agli spazi di lavoro totalizzanti, che comprendono asilo nido, palestra e le frasi ispirazionali alle pareti, dove spendere tutte le dimensioni della propria vita. L’ufficio è il luogo della socialità, che può mancare a casa, ma rimane uno spazio progettato per il lavoro.

le aziende si possono fidare dei loro collaboratori, non hanno bisogno di controllarli

E se le persone non vogliono tornare in ufficio, la domanda che dovremmo porci è “perché preferiscono stare a casa?“, cioè cosa non trovano in ufficio o da cosa scappano.

Rendere “attraente” l’ufficio è la nuova sfida di manager e imprenditori. Quali strategie possono mettere in atto?

Se prima le persone erano obbligate ad andare in ufficio, adesso possono scegliere. Imprenditori e manager devono focalizzarsi sul capire cosa rende attraente un ufficio, e un aspetto fondamentale è la qualità delle relazioni nell’ambiente lavorativo: sono queste che attraggono o respingono le persone. Ma anche restituire tempo e ritmo alle persone. Credo che la vera ricchezza non sia il possesso di beni ma il possesso di tempo, che una volta era considerato “l’oro dei banchieri”. L’ozio era la dimensione della ricchezza, mentre oggi abbiamo ribaltato questo paradigma e abbracciato il “busy bragging”: siamo felici di mostrarci sempre molto impegnati, come se il fatto di non avere tempo dimostrasse che siamo persone rilevanti.

Facendo un salto culturale, credo siano necessari manager “anti-ibridi”, che sanno sanno restituire tempo e valore alle persone.

Paradossalmente lo smart working, che è flessibilità per definizione, richiede una certa disciplina nella programmazione. La giornata lavorativa va pensata in funzione delle attività da svolgere e dei luoghi migliori per farle, quindi non fare a casa ciò che sarebbe meglio fare in ufficio e non fare in ufficio ciò che sarebbe meglio fare a casa.

La programmazione e la pianificazione permettono di restituire tempo alle persone, perché si danno le giuste priorità alle cose. Se tutto è urgente tutto è una priorità, ma con una programmazione corretta si evita il caos organizzativo. Si fanno riunioni solo quando sono veramente importanti, lasciando il giusto intervallo tra una e l’altra, per avere il tempo di riposarsi o rielaborare quanto emerso.

Anche la scelta del canale di comunicazione è importante. Siamo sommersi di chat, email e videoconferenze, ma a volte possiamo anche usare il telefono, perché la comunicazione sincrona ha ancora un valore e non dobbiamo essere ossessionati di apparire sempre in video.

Il manager anti-ibrido sa anche indurre negli altri un’abitudine. Rispetta degli orari di lavoro e non risponde alle telefonate che arrivano prima o dopo un certo orario, magari mandando un messaggio per verificare se si tratta di una questione urgente. Poiché 9 volte su 10 non è una questione urgente, le persone si abituano a rispettare gli orari dedicati alla vita privata.

E poi è importante non vivere con frustrazione. Forse sono stato fortunato, ma il 99,9 percento delle persone con cui collaboro e ho collaborato sono affidabili, lavorano con dedizione e massimo livello di integrità nel migliore interesse dell’azienda. Esiste sempre quello 0,1 percento di persone non affidabili, ma non costruiamo i modelli culturali della nostra azienda basandoci sul peggio o sulla minoranza. Fidiamoci delle persone. Forse è questa la risposta per farle lavorare bene, a casa e in ufficio.