In un mondo del lavoro in continua evoluzione, le persone hanno una nuova consapevolezza verso l’equilibrio vita-lavoro e sono più esigenti nelle loro aspettative verso le aziende. D’altro canto, i manager devono rispondere a queste richieste, mantenendo la rotta rispetto agli obiettivi di business. Ma forse stiamo andando troppo di fretta e non riusciamo a cogliere il contesto. “Il tema vero nel mondo del lavoro, e che riguarda competenze, leadership e innovazione, è che ognuno di noi cerca una check list per raggiungere i suoi obiettivi”, dice Beppe Carrella. “Ma non funziona così, questi sono sottoprodotti, e ci vuole tempo per crearli”.

Con una lunga esperienza come manager ICT, iniziata in Price Waterhouse e maturata in Fininvest ed EMI Music/ Virgin, Beppe Carrella è consulente per diverse società, fondatore di BCLAB e membro del CIO Club Italia. Le esperienze professionali sono accompagnate da una grande passione per la musica e la letteratura. Contaminazioni dalle quali sono nati i libri in cui esplora il lato oscuro e i non detti della leadership, ispirandosi a Faust, Don Giovanni, Pinocchio e i Beatles, “guide ideali per i leader”.

In questa intervista Beppe Carrella parla di leadership, smart working vs working smart, innovazione tecnologica e innovazione sociale. Suggerendo punti di vista spiazzanti e la colonna sonora del mondo del lavoro di oggi.

Lei considera la leadership come un “sottoprodotto”. Cosa significa? E che cos’è il “prodotto”?

La filosofia, quella seria, studia la leadership dicendo che non è un prodotto, ma un sottoprodotto, inteso in senso positivo. Questo cambia completamente la prospettiva.

Il prodotto rappresenta l’approccio alla vita di ognuno di noi, le relazioni costruite con le persone, quello che abbiamo studiato. E’ tutto questo che c’è a monte che fa la differenza, poi viene il sottoprodotto, che può essere la leadership, la felicità, il lavoro.

In questo periodo storico, più di altri, stiamo cercando scorciatoie. Per la leadership, per lo smart working, per il lavoro, che sono tutti sottoprodotti. Non usiamo più la parola “lavoro” nel senso positivo di fare qualcosa di bello, di impegnarsi per ottenere qualcosa. Oggi ci comportiamo come Pinocchio, che diceva “un giorno imparo a leggere, un giorno imparo a scrivere e un giorno faccio i soldi”. Ma non funziona così.

La creazione del sottoprodotto è un processo lungo, e non c’è nessuna check list o nessun manuale che spieghi come arrivarci. Se spostiamo il tiro sul fatto che questi sono sottoprodotti di quello che noi costruiamo nel tempo, allora il mondo cambia drammaticamente, perché vuol dire che queste cose le otteniamo quando facciamo qualcosa in tutt’altro ambito.

Oggi si parla molto di diversità e inclusione. Anche l’inclusione è il sottoprodotto di una cultura, del rispetto verso gli altri. Ci sono variabili a monte che spesso vengono trascurate. Perché? perché ci vuole tempo.

Qual è il rischio di inseguire una “check list” per la leadership?

Si diventa pragmatici. E se c’è una cosa che non funziona in tempi di cambiamento è proprio essere pragmatici, perché significa solo applicare cose imparate in un determinato contesto, ambiente o cultura e applicarle in un altro, che nel frattempo è cambiato.

L’esempio classico di questo meccanismo è quello della rete di sostegno. Una volta si usava il cavallo come mezzo di trasporto e c’erano una serie di lavori che ci giravano intorno, dal maniscalco agli stallieri ai costruttori di carrozze. Quando è arrivata la macchina mancava tutto il contesto intorno – i meccanici, i distributori e così via – cioè la rete di sostegno.

Per costruirla ci vuole tempo, e il discorso vale anche per le tecnologie. Pensiamo alle auto a guida autonoma. Perché non sono ancora sul mercato? Il problema non è tecnologico, da questo punto di vista sono pronte, ma riguarda la questione delle assicurazioni. Quindi non c’è la rete di sostegno per le auto a guida autonoma.

Oggi tendiamo ad andare di fretta, ma non necessariamente veloci. Un aneddoto che racconto sempre ai miei studenti è che Giulio Cesare ha costruito un ponte sul Reno lungo 500 metri in dieci giorni. Noi in dieci giorni probabilmente non saremmo neanche capaci di metterci insieme per capire cosa disegnare!

Eppure siamo sempre di fretta perché abbiamo poco tempo, e ci affidiamo a siti che vendono i riassunti dei libri. Pensiamo al Don Chisciotte, un libro di 1200 pagine ridotto a un condensato. La domanda che sorge spontanea è: perché? chi si arroga il diritto di tagliare cosa? E la verità è che non è nemmeno obbligatorio leggerlo.

Nel suo libro “Dagli scacchi a Fortnite” suggerisce che i leader di domani saranno i giovani appassionati di videogiochi.

“Dagli scacchi a Fortnite. Come cambia la Leadership” – ed. goWare

“Dagli scacchi a Fortnite. Come cambia la Leadership” – ed. goWare

E’ così. In questo periodo si sente spesso dire “non ci sono più leader”. Ma non è vero! Forse non ci sono i leader che piacciono a noi, quelli di cui ci siamo fatti un’immagine, ma ci sono altri tipi di leader.

La leadership e l’innovazione sono sottoprodotti di una cultura emergente. I leader del futuro sono quelli che oggi sono bravi a giocare ai videogiochi, perché sono pronti a quella cultura emergente. Quello è il sottoprodotto.

Se ricordiamo che il prodotto sono le attività e le azioni che facciamo, ci formano e ci mettono in relazione con gli altri, il resto viene automatico e il sottoprodotto è una funzione fondamentale che chiamiamo “leggerezza”. Una volta che abbiamo imparato, il sottoprodotto è leggero. Come il cameriere esperto che riesce a prendere gli ordini senza scrivere, tenendoli a memoria, e a spostarsi tra un tavolo e l’altro in modo disinvolto e si ferma anche per una battuta.

Così è anche per chi guida i team: una volta fatto il lavoro che c’è dietro, cioè il prodotto, il resto viene naturale. E quando le persone se ne accorgono, ti seguono.

Quindi anche l’innovazione si può interpretare come sottoprodotto di qualcosa che è stato costruito nel tempo?

Certo. Essere leggeri vuol dire anche cambiare idea, modificarsi, saper leggere il contesto. Oggi viviamo nel mondo degli hashtag, abbiamo messo il GPS e andiamo avanti sempre nella stessa direzione, senza cambiare idea. Quando una persona si rende conto che deve cambiare qualcosa allora l’innovazione funziona, perché l’innovazione è frutto del periodo.

Però dobbiamo distinguere tra innovazione tecnologica e innovazione sociale. Quello di cui parlano tutti è l’innovazione tecnologica, ma quella sociale è fuori da qualsiasi schema.

Vi ricordate la serie The Jetsons, degli anni ’60, trasmessa in Italia come I pronipoti? Le tecnologie del futuro se le erano già inventate tutte, anzi molte di più. Per esempio, recentemente è stato immesso sul mercato il tapis roulant per cani…loro l’avevano già pensato nel 1963! Cosa non riuscirono a immaginarsi? I cambiamenti sociali: nella serie non c’è una donna che comanda, non c’è un nero, una persona “diversa”. O meglio, l’unico diverso è il guardiano del garage degli elicotteri che parla inglese con un accento napoletano.

Ma tutte le tecnologie che stiamo costruendo, siamo sicuri che siano per le prossime generazioni? In realtà i giovani si stanno costruendo i loro prodotti e sottoprodotti, e tutte le tecnologie che oggi consideriamo innovative per loro saranno normali.

Noi cosa vogliamo fare? vogliamo prevedere come sarà il lavoro tra dieci anni? non lo sappiamo. Dovremmo fare la fatica culturale di pensare a come sarà il mondo, e il lavoro, tra dieci anni.

Lei come se lo immagina il mondo del lavoro? Lo smart working è davvero qui per restare?

Ci concentriamo troppo sulla parola “smart”, che fa riferimento alla tecnologia, ma se invertiamo l’ordine delle parole – working smart – e ci concentriamo su working, è tutta un’altra cosa. Si sente dire da più parti che i giovani non vogliono lavorare, pensano solo alla qualità della vita…come se fosse una cosa negativa.

Tutti cercano di capire cosa la tecnologia sta cambiando, spaziando dalle macchine elettriche ai sistemi robotici per la medicina, ma la domanda che dobbiamo porci è: noi che società stiamo costruendo? non lo sappiamo, perché questo sarà un sottoprodotto di tutte le attività che stiamo mettendo in piedi oggi. Ma è un sottoprodotto che si stanno costruendo i ragazzi.

Secondo uno studio di Oxford, per citare uno dei tanti, nei prossimi anni perderemo il 70% dei posti di lavoro, che saranno sostituiti dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. Se l’AI e l’IT ci libereranno dal lavoro, avremo più tempo, ma cosa ce ne facciamo di quel tempo? Cosa significano felicità e qualità della vita?

Il tema vero è che non sappiamo cos’è il lavoro. Anche la nostra Costituzione è un problema, perché dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Ma quale lavoro?

Un tempo, le persone indossavano umili abiti da lavoro durante la settimana e la domenica “l’abito della festa” per andare in chiesa. A partire dagli ’80 le cose si sono invertite, abbiamo iniziato a usare vestiti eleganti per andare al lavoro e abiti comodi e informali nel fine settimana. In pratica, il lavoro è diventato la religione. A livello storico, a partire da Margaret Thatcher si è spostato l’approccio dalla società, che ha una certa valenza, al singolo individuo, ai successi personali, al “se non ce la fai è perché non ti impegni abbastanza”.

Adesso le cose stanno cambiando ancora, perché i giovani hanno capito i limiti di questo approccio e stanno cambiando la società. E se non gli piace quella in cui vivono ne creano altre, anche nel metaverso. Come si fa quindi a prevedere cosa servirà tra dieci anni, anche in termini di competenze? sarà l’impatto sociale a determinarlo, e sarà l’insieme di tutti i sottoprodotti di come i giovani si stanno immaginando di usare le tecnologie.

Quello che manca veramente è la politica. La società è una proprietà emergente, un fenomeno che va in qualche maniera studiato insieme alla politica. Oggi è la politica solo degli affari.

Ecco perché è facile di parlare smart working, ma è difficilissimo parlare di working smart. Comunque solo in Italia usiamo la formula smart working, all’estero parlano di remote working.

Se non possiamo immaginare il mondo del lavoro tra dieci anni e quali tecnologie emergeranno, è difficile prevedere anche quali competenze serviranno. Con la sua esperienza di docente universitario, spesso le chiedono consigli per il percorso di studi dei figli. Lei cosa suggerisce?

C’è una canzone bellissima di Bruce Springsteen, Jack of All Trade, traducibile come l’uomo tuttofare, in cui Jack ha perso il lavoro e per andare avanti fa di tutto, dal pulire le grondaie a tagliare il prato, ma alla fine chi continua a ingrassare è chi ha sempre avuto soldi e potere. Questa cosa si verifica nel mondo del lavoro ogni volta che qualcuno prende le decisioni senza capire l’impatto che hanno.

Consideriamo l’AI, la blockchain, le organizzazioni decentrate: sembra che stiamo andando verso una società anarchica, nel senso positivo del termine, però Jack of All Trade ha ragione, lui subisce decisioni prese da altri. Pensiamo ai recenti continui licenziamenti delle aziende tech, ma non solo. I giovani non sono stupidi, questa cosa l’hanno capita: perché devono studiare tanto, sacrificarsi per il lavoro e poi essere licenziati?

E questo spiega anche l’alto tasso di abbandono degli istituti superiori e delle Università: i giovani lasciano perché, rispetto alle generazioni precedenti, sta cambiando l’approccio al mondo del lavoro. Accanto a questo succede anche che, in proporzione alla popolazione, in Italia abbiamo un numero di Master e corsi di specializzazione che è il doppio rispetto agli Stati Uniti. Perché? Se sono così importanti, se sono questi che danno lavoro, perché non diventano corsi di laurea?

Altra cosa fondamentale è che non ci sono salti tecnologici. Lo sviluppo procede in diverse direzioni, poi a un certo punto alcune tecnologie si fermano e altre vanno avanti. Come si fa a prevederlo? E’ l’eterno dilemma biblico tra il topolino e l’elefante. Il topolino, meno forte fisicamente, studia tutte le mosse dell’elefante, e per questo vince. Nokia, Kodak e altre sono fallite perché si sono comportate come elefanti, non topolini, una volta arrivate all’apice non si sono guardate intorno per studiare il contesto.

I giovani studiano, ma studiano su YouTube, è questo il tema. Non gli stiamo lasciando niente di eccellente, l’eccellenza se la costruiscono loro. E io ho speranza che si costruiranno una società molto diversa, forse migliore, della nostra e senza salti tecnologici.

C’è una pagina bellissima di Calvino ne Le città invisibili, in cui Marco Polo dice che l’Inferno è quello che creiamo tutti i giorni stando insieme, nelle nostre relazioni. Ci sono due modi per uscire da questo inferno: uno è rimanere nella massa, stare in questo inferno facendo finta di niente, l’altro è riconoscere ciò che inferno non è, dargli spazio, farlo crescere. E’ tutto qui. Cerchiamo di capire quello che funziona, diamogli spazio e facciamolo crescere.

Lei è un appassionato di musica e riconosce nei Beatles un esempio di innovazione.

Beh, qualsiasi cosa stiamo facendo l’hanno inventata loro. Dalla leadership condivisa, perché nel gruppo non c’era una singola star, a un modello di business innovativo riconosciuto anche da Steve Jobs, alla battaglia contro l’apartheid, quando si rifiutarono di suonare solo per i bianchi a Jacksonville, nel 1964.

Dopo Bruce Springsteen e i Beatles, suggerisce una colonna sonora per il mondo del lavoro di oggi?

Le canzoni del rapper Truce Baldazzi. Gli artisti hanno la grande capacità di leggere i segnali deboli. Ci sono valori universali, ma in ogni epoca l’approccio cambia. I rapper parlano della sofferenza della società, come faceva Eminem all’inizio, raccontano del bisogno di essere ascoltati, magari lo dicono in modo violento, ma esprimono un disagio reale.

Noi facciamo i corsi sulla leadership e il feedback, ma in realtà si tratta di ascoltare e costruire la relazione.