Un gruppo di ricercatori del Policlinico Campus Bio-Medico di Roma ha effettuato uno studio per valutare l’utilizzo di una serie di dispositivi collegabili allo smartphone per prevenire gli ictus. L’obiettivo, per fare un esempio, sarebbe il monitoraggio della frequenza cardiaca e la misura di alcuni parametri vitali per aiutare a identificare in maniera più efficace una possibile causa dell’ictus. Grazie al monitoraggio previsto dallo studio sono stati infatti riscontrati precocemente segnali di fibrillazione atriale, un’aritmia cardiaca causa di ictus, che hanno consentito di agire subito con la corretta terapia di prevenzione (un farmaco anticoagulante).

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in Neurology, grazie all’impegno del settore assicurativo italiano che, attraverso la Fondazione Ania (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici), ha supportato la ricerca.

In Italia si verifica un ictus ogni tre minuti e questa patologia rappresenta la terza causa di morte e la più frequente causa di disabilità permanente negli adulti. Molti casi di ictus sono collegabili ad aritmie cardiache spesso asintomatiche o a picchi ipertensivi ricorrenti, anche questi asintomatici. Ma un significativo numero di ictus rimane apparentemente senza una causa e in questi casi è molto difficile prescrivere una terapia efficace in grado di scongiurare la ricorrenza dell’ischemia cerebrale.

Il dettaglio dell’indagine

Lo studio ha valutato la fattibilità dell’utilizzo delle nuove tecnologie nella prevenzione secondaria degli eventi cerebrovascolari in pazienti che avevano avuto un attacco ischemico transitorio o Tia (transient ischemic attack) o un minor stroke (ischemia cerebrale con sintomi lievi).

Sono stati reclutati 161 pazienti: 87 nel gruppo di studio, 74 nel gruppo di controllo. I pazienti sono stati monitorati per un mese utilizzando uno smartwatch di ultima generazione in grado di registrare l’elettrocardiogramma e dispositivi collegabili al device attraverso i quali è possibile effettuare la misurazione della pressione arteriosa e la saturazione di ossigeno nel sangue.

Questi dispositivi interagivano via bluetooth con uno smartphone fornito dai ricercatori sul quale venivano registrati i dati raccolti nel mese di osservazione. Al paziente veniva richiesto di indossare il più possibile lo smartwatch per la registrazione continuativa di vari parametri, come frequenza e variabilità del ritmo cardiaco, movimento, passi, etc., e di eseguire almeno un paio di volte al giorno la misurazione della pressione arteriosa, la valutazione della saturazione di ossigeno e la registrazione dell’elettrocardiogramma.

Questi dati venivano integrati con la “classica” valutazione clinica per avere un quadro più dettagliato e preciso dello stato di salute globale del paziente e per poter personalizzare le decisioni terapeutiche. Nel gruppo di studio sono stati identificati nove episodi di fibrillazione atriale contro i tre identificati nel gruppo di controllo.

Il killer silenzioso

Il numero di fibrillazioni atriali riscontrate nel gruppo dei pazienti oggetto dello studio è notevole – spiega Vincenzo Di Lazzaro, ordinario di neurologia, direttore dell’Unità di neurologia presso il Policlinico e responsabile dello studio –. La fibrillazione atriale è un killer silenzioso perché spesso è asintomatica, il paziente può non accorgersi fino a quando non si manifestano le sue catastrofiche conseguenze che possono portare fino a un’embolia cerebrale. Altrettanto notevoli sono i dati raccolti sulla misurazione della pressione arteriosa, che ci permettono di avere un quadro dell’andamento dei valori pressori nella vita quotidiana. Raccogliere dati nella quotidianità è essenziale per programmare interventi di prevenzione personalizzati”.

L’innovativo approccio non solo è fattibile e di facile applicazione, come si comprende dagli ottimi dati sulla compliance e sulla soddisfazione dei pazienti, ma è risultato efficace anche nel migliorare la gestione delle fasi successive alla dimissione dall’ospedale.

Fondamentale prevenire recidive

I dati presenti in letteratura – sottolinea Fioravante Capone, neurologo del Policlinico e co-autore dello studio – ci dicono che dopo un ictus o un Tia, ci sia un rischio non trascurabile di recidiva, cioè che l’evento possa ripetersi nel periodo successivo. Questo rischio è quantificabile nel 15-20% dei pazienti a 5 anni dal primo evento, soprattutto nelle fasi immediatamente successive a Tia o ictus. È significativo osservare che, sebbene la gestione dell’ictus in fase acuta sia notevolmente migliorata – come dimostrato dalla netta diminuzione della mortalità nel corso degli ultimi due decenni – il tasso di recidiva dell’ischemia cerebrale è rimasto sostanzialmente invariato, ad indicare che c’è ancora molto da fare a riguardo. L’insieme degli interventi finalizzati a ridurre il rischio di recidiva è ciò che intendiamo con il termine prevenzione secondaria”.

Francesco Motolese, neurologo e terzo co-autore, conclude: “Quando il paziente torna alla sua vita normale il rischio di recidiva è più alto. Cercavamo un approccio che non fosse solo efficace ma anche facilmente attuabile da tutti i pazienti, a prescindere da età, alfabetizzazione digitale o scolarizzazione. Questi strumenti permettono di monitorare in continuo e senza sforzo molti parametri fisiologici o misurare un vero e proprio elettrocardiogramma con un dito. Con il nostro studio abbiamo verificato se questo approccio fosse applicabile all’ictus, una patologia che colpisce all’incirca 200 mila italiani ogni anno. I risultati ci confermano che le nuove tecnologie possono rappresentare un valore aggiunto nel seguire questi pazienti anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero e per periodi prolungati”.