Per un CIO o un responsabile IT, il trasloco di un data center è una delle attività più stressanti. Il rischio è che qualcosa vada storto e l’azienda rimanga privata dei servizi informativi per un periodo di tempo rilevante, ed è un rischio che nessuno vorrebbe correre.

Eppure, diverse tendenze recenti – a volte di segno opposto a seconda dei casi – portano molte aziende a dover affrontare un trasferimento dell’infrastruttura IT da un data center on-premises a un fornitore di colocation o al cloud.

Oggi le aziende stiano effettivamente iniziando a capire che rivolgersi a un fornitore di colocation permette di fruire di un ambiente ideale, adatto alla gestione del proprio datacenter e che toglie tanti pensieri e problemi all’IT manager e a chi gestisce la rete in azienda”, racconta a Computerworld Stephan Riechmann, responsabile della gestione dei progetti di trasferimento di data center presso Rosenberger OSI, azienda specializzata in sistemi di cablaggio per datacenter, reti locali e mobili e sistemi industriali che ha aggiunto al suo portfolio anche un servizio di consulenza per la progettazione dei data center.

Stephan Riechmann, responsabile della gestione dei progetti di trasferimento di data center di Rosenberger OSI

Stephan Riechmann, responsabile della gestione dei progetti di trasferimento di data center di Rosenberger OSI

“Ci sono anche nuove esigenze come il supporto di tecnologie più moderne, risparmio e ottimizzazione dei costi energetici o nuove normative che impongono considerazioni su sicurezza e resilienza. La scelta di avere il datacenter in casa, infatti, per l’azienda significa dover dedicare nell’edificio uno spazio fisico “protetto”, ossia gestito e controllato negli impianti elettrico, di raffreddamento, antincendio eccetera”.

Vi sono poi considerazioni di natura finanziaria, perché i costi di una gestione esterna vengono contabilizzati sulle spese operative e non sul capitale immobilizzato, compensando i maggiori costi di una colocation.

Ovviamente è necessaria una valutazione caso per caso, in cui valutare se spostare tutto il datacenter o solo una parte, mantenendo in casa i servizi critici, ma di fatto liberando spazio fisico da adibire ad altre attività. Questo processo, per Riechman, avviene in tre fasi.

Trasferimento del data center, un processo in tre fasi

Per Riechman, il trasferimento del DC può essere idealmente suddiviso in tre fasi.

La prima è la stesura di una descrizione dettagliata del DC del cliente, elencando dettagliatamente l’hardware da spostare. L’esperienza sul campo, infatti, dimostra spesso che gli elenchi disponibili non sono aggiornati. È consigliato quindi fare sempre e comunque un inventario, possibilmente includendo anche il cablaggio, in modo da mappare l’intero scenario. Questa fase di controllo ha l’ulteriore vantaggio per il cliente di poter aggiornare gli elenchi degli asset, controllare le licenze e i contratti di manutenzione.

La seconda fase è la progettazione del trasferimento. In linea generale la progettazione può essere ipotizzata su due alternative: il «big bang» e il trasferimento a ondate.

Il «big bang» è il trasferimento completo con spostamento dell’intero blocco dal luogo di origine al luogo di destinazione. Un «big bang» si effettua in un tempo ridotto ma la preparazione deve essere perfetta, perché comporta un grosso rischio: quando il trasferimento è effettuato può funzionare tutto, oppure può non funzionare nulla, e in tal caso occorre tornare al vecchio scenario in modo molto veloce, pur senza aver raggiunto l’obiettivo.

Nel trasferimento a ondate, invece, l’operazione è suddivisa in piccole fasi su un periodo di tempo più lungo. Per esempio, si può traslocare prima l’ambiente di test, poi l’ambiente di produzione, quindi lo storage. Dopo ogni passaggio si effettua un controllo sul funzionamento e, se superato, si progetta la fase successiva. Lo svantaggio è il tempo prolungato e la necessità di impiegare molto personale.

Valutazioni e test preliminari

Anzitutto, si valuta la dimensione da trasferire e i luoghi del trasferimento; si valuta anche l’età delle apparecchiature. Dall’inventario analitico effettuato nella prima fase si può evincere se le apparecchiature sono già oltre la loro vita utile o non sono più abbastanza performanti. È il caso di fare un «lift & shift», vale a dire prendere l’hardware così come è e installarlo nella nuova sede, oppure cogliere l’occasione per un «tech refresh» con dispositivi più moderni, più veloci, che consumano meno energia?

Se si opta per il «lift & shift» è consigliato effettuare un test preliminare: spegnere e riavviare i sistemi per verificare se sopravvivono a un riavvio. “L’esperienza ci insegna che server accesi da anni non sempre funzionano al riavvio. Inoltre, bisogna assicurarsi di disporre dei pezzi di ricambio, perché se qualcosa si guasta è possibile intervenire”, avvisa Riechman.

trasferimento data center

Il trasporto delle apparecchiature del data center

La terza fase è costituita dal vero e proprio passaggio. A questo punto tutte le decisioni saranno state prese e la progettazione effettuata nei minimi particolari.

Devono esserci persone esperte che smontano gli apparecchi dal data center di origine e le spostano nel nuovo data center. Tra le altre raccomandazioni di Riechman, c’è quella di fare una attenta valutazione degli spazi di passaggio: le dimensioni degli accessi, le altezze e le larghezze dei corridoi del datacenter. Anche il pavimento va controllato perché deve sostenere il peso delle operazioni.

Anche lo spazio esterno deve essere analizzato prima: saracinesche e rampe, porte e accessi: il trasporto di un rack completo è molto delicato. Inoltre, è meglio percorrere in anticipo il tragitto stradale che farà il camion per verificare i tempi, perché si lavora in velocità.

Queste valutazioni e suggerimenti specifici per la situazione particolare vengono forniti da Rosenberger OSI con i servizi di consulenza per datacenter, servizi ora disponibili anche per le aziende italiane.