L’accordo raggiunto al recente G7 canadese sulla global minimum tax rappresenta una svolta di grande rilievo, destinata a ridefinire i rapporti di forza nel panorama della fiscalità internazionale. La decisione di escludere temporaneamente le multinazionali statunitensi dall’applicazione della tassa minima globale del 15% sui profitti (un pilastro della riforma OCSE avviata nel 2021) segna infatti una netta inversione di tendenza rispetto agli obiettivi originari di contrasto all’elusione fiscale e di rafforzamento della cooperazione multilaterale tra Stati.

La global minimum tax è nata dall’esigenza di porre un freno alla concorrenza fiscale tra Stati e alle strategie di elusione messe in atto dalle grandi multinazionali, in particolare le big tech, che spesso sfruttano le differenze tra i regimi fiscali nazionali per abbattere il proprio carico tributario. L’accordo del 2021, promosso dall’OCSE e sottoscritto da oltre 140 Paesi, prevedeva due pilastri fondamentali:

  • Rilocazione della tassazione: i profitti delle multinazionali sarebbero stati tassati nei Paesi in cui vengono effettivamente realizzati
  • Imposta minima globale del 15%: una soglia sotto la quale nessuna multinazionale avrebbe potuto scendere, indipendentemente dalla sede legale.

L’Unione Europea aveva già avviato l’attuazione della global minimum tax dal gennaio 2024, rafforzando la pressione sulle imprese multinazionali a rispettare regole più stringenti.

Il vertice G7 in Canada ha invece visto l’affermarsi di una posizione fortemente voluta dall’amministrazione Trump, che ha imposto una “soluzione parallela”: le multinazionali con sede negli Stati Uniti saranno esentate dal secondo pilastro della riforma OCSE, ossia dall’applicazione della global minimum tax, “in virtù delle regole di tassazione minima esistenti negli USA”.

Questa esenzione si fonda sul sistema fiscale americano GILTI (Global Intangible Low-Taxed Income), introdotto nel 2017, che prevede già una tassazione sui profitti esteri delle multinazionali USA. Sebbene l’aliquota GILTI sia inferiore al 15%, nel nuovo contesto geopolitico essa viene ora considerata sufficiente per evitare l’applicazione della tassa minima globale alle imprese americane.

Crediti: Shutterstock

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Le motivazioni e le conseguenze geopolitiche

Alla base dell’accordo vi è la volontà di evitare una escalation di ritorsioni fiscali e commerciali tra Stati Uniti ed Europa. L’amministrazione Trump aveva minacciato l’introduzione di una “revenge tax” e dazi sulle importazioni europee, in particolare contro quei Paesi che avessero insistito per applicare la global minimum tax anche alle big tech americane. Il rischio di una guerra commerciale, con ripercussioni pesanti su settori chiave dell’economia europea (farmaceutica, automotive, meccanica), ha spinto i governi europei a optare per un compromesso, considerato “onorevole” dal ministro italiano Giancarlo Giorgetti, in grado di proteggere le imprese europee dalle ritorsioni automatiche previste dalla legislazione USA.

L’esenzione concessa agli Stati Uniti rappresenta senza dubbio una vittoria diplomatica per Trump, che può rivendicare un risparmio di circa 100 miliardi di dollari in tasse estere per le aziende americane. Al tempo stesso, però, il compromesso rischia di svuotare di significato la riforma stessa, visto che se le principali multinazionali mondiali, quasi tutte a controllo statunitense, vengono escluse dal nuovo regime, la global minimum tax perde gran parte della sua efficacia e della sua portata sistemica.

Il segretario generale dell’OCSE, Mathias Cormann, ha definito l’accordo una “pietra miliare”, sottolineando come il nuovo approccio possa comunque garantire una maggiore stabilità e prevedibilità del quadro normativo internazionale, pur riconoscendo la necessità di ulteriori negoziati per definire i dettagli dell’esenzione e il futuro della cooperazione fiscale globale.

Resta da vedere quale sarà la reazione degli altri attori internazionali, a partire dall’Unione Europea, che aveva investito molto sul progetto della global minimum tax. Il rischio è che la decisione del G7 apra la strada a nuove richieste di esenzione da parte di altri Paesi, indebolendo ulteriormente il principio del multilateralismo fiscale e favorendo una frammentazione degli standard internazionali.

Altre due conseguenze da non sottovalutare riguardano la cementificazione della partnership tra Trump e big tech e il rafforzamento del drenaggio di risorse verso le aziende americane, limitando la competitività di quelle locali.

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