Questo decennio è iniziato molto male. Come possiamo fare per uscirne meglio? È questa la domanda che si pone Alec Ross, visiting professor della Business School dell’Università di Bologna e, come esperto e advisor di The European House Ambrosetti, coordinatore della ricerca “Next Generation DigITALY: come promuovere l’integrazione e lo sviluppo di un ecosistema digitale per accelerare l’innovazione e la crescita del Paese” realizzata appunto da Ambrosetti con dati Eurostat e la collaborazione di Microsoft e presentata alla 48esima edizione del Forum di Cernobbio.

Due sono i problemi principali del Paese: l’enorme debito nel campo delle competenze, incolmabile prima di 5-10 anni, e la grande frammentarietà del tessuto imprenditoriale italiano, soprattutto nel settore della tecnologia, dove le microaziende non hanno alcuna speranza di competere in modo rilevante.

Procediamo con ordine.

Il dramma delle competenze digitali in Italia

Sebbene negli ultimi due anni l’Italia abbia guadagnato qualche posizione sul fronte delle competenze digitali della popolazione generale e della forza lavoro, come si vede anche dal più vasto Rapporto DESI 2022 della Commissione Europea, la condizione di partenza era così desolante da non consentire di esserne compiaciuti.

Competenze digitali di base

A livello delle competenze digitali di base nella popolazione, sono 20 milioni gli italiani a cui mancano le skill di base per centrare gli obiettivi del Digital Compass 2030 (80% dei cittadini con competenze digitali di base, non solo strettamente collegate all’informatica ma anche alla sfera dell’informazione, valutazione e visualizzazione dei dati). Sono un’enormità, concentrati soprattutto nella fascia più anziana della popolazione (forse sotto sotto si spera che l’anagrafe e la biologia risolvano il problema spontaneamente?).

Nell’ambito del progetto Ambizione Italia, Microsoft ha raggiunto i suoi momenti di formazione 2,5 milioni di italiani, ma la strada è ancora Lunga. Silvia Candiani, country general manager di Microsoft Italia, auspica l’introduzione di un trattamento fiscale agevolato per aziende che fanno apprendistato e formazione sui temi del digitale.

Competenze digitali avanzate

Più preoccupanti sono le competenze specializzate che mancano alla forza lavoro che dovrebbe trainarci fuori dalle sabbie mobili.

La ricerca Ambrosetti evidenzia che all’Italia mancano 130.000 iscritti ai corsi di laurea in materie ICT per raggiungere i livelli della Germania. Con soli 0,7 laureati in materie ICT per 10.000 abitanti rappresentiamo il peggior dato in Europa. Siamo molto lontani dai 3 laureati della Germania e i 5 della Finlandia, ma il dato è impietoso anche nei confronti di paesi come Romania, Slovacchia e Polonia.

Grafico con dati sugli iscritti a cosri ICT in rapporto alla popolazione: l'Italia è ultima in Europa.

L’Italia è ultima in Europa per numero di iscritti a corsi di laurea in materie ICT.

Ma quanti sono 130.000 iscritti in materie ICT in relazione ai dati attuali? Sono pochi? Sono tanti? Mettendo insieme i dati del MIUR  e del Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri, sia arriva meno di 100.000.

Ecco il contesto in cui vanno inquadrati quei 130.000 iscritti in più. Non sono “un po’ più di quel che abbiamo”. Sono il doppio e poi ancora un terzo di quel che abbiamo. Per arrivarci in cinque anni, dovremmo avere più di 25.000 iscritti in più all’anno, molti meno dei posti ora disponibili sommando i vari atenei.

Dove mettiamo quei ragazzi? Con chi li facciamo studiare?

I laureati italiani in informatica dovrebbero essere più del doppio degli attuali. Dove mettiamo gli iscritti che mancano? Con chi li facciamo studiare?

 

Ma soprattutto, quando anche raggiungessimo la proporzione di laureati in materie ICT della Germania, le imprese italiane sarebbero in grado di accoglierli? Forse no.

Imprese troppo piccole per crescere

Sembrerà un paradosso, ma se pensiamo al digitale come al principale strumento di crescita, dobbiamo fare i conti con il fatto che esiste una dimensione minima sotto la quale le aziende non possono permettersi di abbracciare una vera digitalizzazione.

In Italia purtroppo abbiamo il mito delle PMI che, agili e capillarmente presenti su un territorio anch’esso popolato in modo frammentato, rappresentano la spina dorsale dell’imprenditoria italiana. Brutta notizia: nel mondo digitale non è più così.

Esiste una dimensione minima sotto la quale le aziende non possono permettersi di abbracciare una vera digitalizzazione. Sono troppo piccole.

Ha ragione Silvia Candiani  quando sostiene che il cloud è un abilitatore che abbassa le barriere di ingresso e permette anche alle PMI di abbracciare la digitalizzazione, ma poche aziende di 50 persone possono sostenere un team di sviluppo interno; un’azienda che ha 10.000 clienti non potrà usare big data e intelligenza digitale per estrarre dai suoi dati lo stesso tipo di conoscenze che invece può ricavare un’azienda che di clienti ne ha milioni.

E questo vale anche e soprattutto anche per le imprese che si occupano specificatamente di digitale e ICT. Ross evidenzia che l’Italia è al quarto posto in Europa come numero di imprese ICT, ma decima come valore dei ricavi medi per azienda, e che se le imprese ICT italiane avessero le dimensioni medie delle concorrenti tedesche, il comparto triplicherebbe generando un aumento del PIL del 14%.

Grafico con il Numero e ricavi medi delle aziende del settore ICT in Italia.

Numero e ricavi medi delle aziende del settore ICT in Italia.

Che fare, quindi?

Citando anche la sua esperienza come senior advisor del Dipartimento di Stato Usa sotto l’amministrazione Obama, Ross afferma che è possibile applicare all’Italia una politica industriale del digitale in grado di creare nuovi distretti e potenziare quelli attuali.

Per perseguire questo fine, indica tre priorità: capitale umano digitale, politica industriale del digitale e avanzamento deciso con i progetti del PNRR.

Sul capitale umano è necessario aumentare la formazione scolastica, ma non basta. Servono piani di upskilling e reskilling della forza lavoro, che possano rappresentare anche una leva per l’inclusione sociale territoriale, generazionale e di genere.

La politica industriale deve favorire l’integrazione sociale delle PMI, ma anche una loro crescita o integrazione per colmare il gap dimensionale con l’Europa, e stimolare la nascita di nuove startup innovative.

Riguardo al PNRR, è fondamentale dimostrare il massimo impegno per garantire il raggiungimento delle milestone, semplificare l’accesso a fondi e bandi per l’innovazione e coinvolgere il settore privato nel raggiungimento degli obiettivi.

Sull’effettivo accesso delle risorse del PNRR da parte delle imprese italiane, Candiani sottolinea come servano meccanismi facili per l’accesso a fondi e risorse per l’innovazione. Qualcosa di simile al bonus 110% con cessione del credito. Soprattutto però l’erogazione dei fondi deve essere certa: molte aziende non stanno sfruttando le agevolazioni disponibili perché temono di vedersi chiedere la restituzione dei fondi per errori nella presentazione della domanda o cambiamenti nelle condizioni da parte della politica.

Queste le proposte di Ambrosetti.

Per quanto mi riguarda, non posso che ricollegarmi al titolo della ricerca, Next Generation, per dire che quel che va fatto oggi deve avere una prospettiva generazionale, con obiettivi a lungo termine e senza il timore di ribaltare lo status quo per non turbare questa o quella categoria. Come nel campo dell’ambiente e dell’energia, gli interventi forti, ambiziosi e sostenuti nel tempo della politica non sono più rimandabili. Serve però che la politica guardi molto al di là delle scadenze elettorali.