Le aspettative sempre più alte dei consumatori e la crescita dell’eCommerce non hanno ridotto per le aziende del settore dei beni di largo consumo (CPG, Consumer Packaged Goods) la strategicità della collaborazione con i retailer. Oggi negli USA i produttori CPG realizzano ogni anno un volume di affari di mille miliardi di dollari, e il 95% di queste vendite proviene dal retail tradizionale.

I retailer però sono alle prese con un momento di grande complessità, definito da molti “la transizione al Retail 4.0”, in cui la trasformazione digitale, la concorrenza di Amazon e dei marketplace online, e la necessità di gestire in modo integrato sempre più canali, stanno provocando grandi stravolgimenti, tra cui la chiusura di molti negozi tradizionali, e il ripensamento radicale del concetto stesso di punto vendita.

In questo scenario, i ricercatori di Salesforce hanno recentemente condotto un sondaggio globale su 500 leader del settore dei beni di largo consumo per scoprire in che modo l’avvento del Retail 4.0 stia influenzando le loro strategie. I risultati configurano tre sfide principali per i produttori CPG, e sono contenuti nel report “Beni di consumo: ripensare le relazioni B2B e B2C”. Salesforce nel suo blog ha dato un’anteprima, con alcuni commenti di Sunil Rao, responsabile globale go-to-market dei prodotti di consumo di Salesforce. Ecco le tre sfide:

Scarsa execution nei negozi degli investimenti in marketing

Il 42% dei leader del settore beni di largo consumo afferma che gli attuali problemi del settore Retail, come la chiusura di punti vendita e la pressione sui margini, influiscono negativamente anche sulla propria attività. Una delle aree in cui questo si evidenzia di più è l’esecuzione dei piani di marketing e merchandising dei produttori CPG nei negozi fisici. Questi piani costano ai produttori CPG circa 200 miliardi di dollari ogni anno, ma secondo gli intervistati in meno di metà dei casi (48%) vengono correttamente realizzati: solo negli USA quindi oltre 100 miliardi l’anno sono investiti per ottenere ritorni non ottimali, se non del tutto insoddisfacenti.

“Il rapporto dei produttori CPG con il retailer è ancora fondamentale – commenta Sunil -. In questa battaglia continua per guadagnare l’attenzione dei consumatori, i retailer e i marchi devono giocare insieme per sopravvivere. Il miglioramento della retail execution resta ancora una potente leva, che riduce i costi supportando al contempo una crescita di alto livello attraverso una costante attenzione alla qualità dell’esperienza cliente”.

La minaccia dei “private label”

Non stupisce che dal sondaggio emerga che i marchi “private label” dei retailer siano considerati una minaccia da circa la metà (49%) dei leader del settore dei beni di largo consumo, in quanto concorrenti diretti dei propri prodotti a basso prezzo.

Nel post, Salesforce fa l’esempio del marchio Kirkland di Costco, che nel 2018 ha realizzato un fatturato addirittura di 40 miliardi di dollari, con un incremento dell’11% rispetto al 2017 e un volume di vendite maggiore di Campbell Soup, Kellogg’s e Hershey insieme. In Italia, secondo Borsa Italiana, i prodotti a marca del distributore (o private label) sono ormai prossimi al 20% del mercato (erano al 14,2% dieci anni fa) e sviluppano un giro d’affari di circa 10,3 miliardi di euro, che salirà a 11 miliardi entro il 2020.

“Ormai, per un consumatore su 2, la marca del distributore è la prima scelta e non un prodotto sostitutivo della marca industriale, soprattutto nel fresco, cioè carne, salumi e latticini”, scrive Borsa Italiana. “Ma anche nel comparto dei prodotti per la cura della persona e dell’igiene personale la marca del distributore è ormai la prima scelta per il 20% dei consumatori”.

Sunil afferma che, sebbene i private label abbiano un forte impatto, le aziende del settore dei beni di largo consumo possono ancora vincere la sfida: “Per i leader dei beni di consumo è più importante che mai raccontare ai consumatori una storia interessante. Concentrandosi sull’esperienza del consumatore, sulla personalizzazione e sul servizio impeccabile, possono assicurarsi il successo, indipendentemente dagli altri marchi sullo scaffale”.

Le barriere all’accesso ai dati dei consumatori

In un settore in cui l’accesso ai dati sui consumatori è fondamentale per accelerare l’innovazione e il time to market, i produttori CPG soffrono dello storico problema dell’accesso indiretto alle informazioni sui comportamenti d’acquisto, che ovviamente nel caso delle vendite “non online” sono rilevate direttamente dai retailer. In effetti secondo l’indagine meno della metà (43%) dei leader del settore dei beni di largo consumo è completamente soddisfatta della propria abilità di sfruttare gli insight dei retailer tradizionali sui clienti.

I marketplace e i canali all’ingrosso non divulgano i volumi di dati di cui i produttori CPG hanno bisogno: il 41% di loro può accedere soltanto a una quantità limitata dei dati di queste fonti combinate.

Tuttavia i leader del settore dei beni di consumo sono attivamente al lavoro su questo problema. Sunil sottolinea: “I dati sono il fondamento per le applicazioni di intelligenza artificiale e consentono la personalizzazione e l’automazione in tempo reale nel settore beni di consumo. Di conseguenza, i leader del settore considerano prioritaria l’accessibilità dei dati. Il nostro studio ha rilevato che l’82% ha intenzione di aumentare gli investimenti nei prossimi tre anni per rendere accessibili i dati proprietari sui consumatori”.