Poco più di un anno fa, da un giorno all’altro, milioni di lavoratori sono stati costretti ad abbandonare gli uffici e hanno iniziato a lavorare da casa. L’Osservatorio del Politecnico di Milano ha stimato che, a differenza del 2019 dove gli home worker erano circa 570mila (il 20% in più rispetto all’anno precedente), nel 2020 sono diventati 6,58 milioni, circa un terzo dei lavoratori dipendenti. Lo stesso Osservatorio afferma che il 94% della Pubblica amministrazione, il 97% delle grandi imprese e il 58% delle Pmi sono stati i protagonisti dell’ondata di smart working.

All’inizio della pandemia, la necessità del lavoro da remoto ha colto di sorpresa molte delle aziende, che non sono state in grado di organizzarsi adeguatamente. Con il tempo, però, ci si è resi conto dell’importanza di una struttura alla base del lavoro da casa, condizione che si è rivelata tutt’altro che temporanea. Le grandi imprese, infatti, nel 69% dei casi hanno aumentato la dotazione di hardware, di sistemi per l’accesso sicuro ai dati e alle applicazioni aziendali, e il 47% ha utilizzato software per la collaborazione. In questa categoria possono rientrare quelle soluzioni che permettono anche il controllo a distanza dei lavoratori che nelle Pmi hanno coinvolto il 14% delle aziende.

Le attività monitorate

Ai dati dell’ateneo milanese si affiancano quelli di Capterra secondo cui il 43% dei 1.256 dipendenti italiani intervistati lavora in un’azienda che utilizza strumenti che ne permetterebbe il monitoraggio. Di questi, il 22% ha dichiarato che l’attività di sorveglianza è iniziata con l’avvio della pandemia. L’88% è stato adeguatamente informato sulle attività di monitoraggio grazie a un documento aziendale, mentre il 12% non ha ricevuto informazioni. Fra le attività monitorate sarebbero comprese nel 54% dei casi generiche attività del pc, come il numero di ore lavorate, navigazione, tasti premuti. O ancora, nel 28% sarebbe anche monitorata la postazione lavorativa, nel 25% l’utilizzo dei social media e nel 20% le conversazioni audio.

Tra i software più utilizzati si trovano BizTalk360, Aws trusted Advisor, Salesforce Data Studio e MyAnalytics di Microsoft integrato in Microsoft Viva, presentati come strumenti per il controllo o il miglioramento della produttività. Il marketing aziendale esalta l’utilizzo di questi software come strumenti per migliorare l’equilibrio tra vita lavorativa e personale (il cosiddetto work-life balance) messo in crisi dall’introduzione dell’ufficio fra le mura di casa.

All’estero, con particolare riferimento agli Stati Uniti, vengono talvolta impiegati strumenti che – a partire dal nome – non lasciano dubbi sulle reali finalità: il controllo e, diciamolo, lo spionaggio nei confronti dei dipendenti. Applicazioni come StaffCopTeramindHubstaffCleverControl, and Time Doctor includono funzionalità per il monitoraggio in tempo reale delle attività e permettono di catturare schermate del computer dei lavoratori a intervalli regolari, registrano tutti i tasti premuti, registrano il video catturato dalla webcam e l’audio del microfono. Spesso questi strumenti vengono installati senza nemmeno avvertire i dipendenti.

Staffcop monitoraggio dipendenti

StaffCop permette agli amministratori di sistema di visualizzare in diretta il video registrato dalle webcam dei computer aziendali.

Controllo e privacy

Luba Manolova, direttore della Divisione Microsoft 365 di Microsoft Italia, sottolinea questo aspetto partendo dai dati del Work trend index secondo i quali il 56% degli intervistati ha visto aumentare il proprio carico di lavoro e, per quanto riguarda l’Italia, il 23% ha ammesso di essersi trovato in difficoltà lavorando da casa. Dati che alimentano la visione “illuminata” di questi software che, come sottolinea Manolova, “permettono di comprendere e aiutare il comportamento delle persone per reindirizzarne i comportamenti”.

Luba Manolova, direttore della Divisione Microsoft 365 di Microsoft Italia

Luba Manolova, direttore della Divisione Microsoft 365 di Microsoft Italia

Osservando per esempio l’area che riguarda la collaborazione si è notato che, in ambito smart working, rischia di limitarsi alle persone che fanno parte del proprio cerchio ristretto e di non allargare il proprio network causando inefficienza organizzativa. Anche l’ufficio in sé può essere messo sotto controllo. Grazie ad alcuni sensori, le poche volte in cui viene frequentato, può essere analizzato per capire in quali aree si concentrano le persone per evidenziare le sale più frequentate o quelle che rimangono vuote: ciò potrebbe portare ad una ridefinizione degli spazi.

I dubbi riguardo la propria privacy non mancano, ma chi di dovere ne garantisce il rispetto: solo il lavoratore può verificare i propri dati. Il manager può vedere gli analytics per gruppi di dieci – se il suo gruppo è di cinque non vede nulla – ad esempio controllando quanti (e non chi) lavorano oltre l’orario; il livello leader prevede che i dati siano osservati solo in maniera aggregata. L’azienda, inoltre, può inserire ulteriori livelli di privacy.

Utilizzati anche dalle grandi aziende in epoca pre-pandemica, questi software sono poi passati anche a strutture di livello dimensionale inferiore, spiega la manager di Microsoft, che magari inizialmente hanno pensato a una funzione di controllo per poi comprendere come la produttività non desse segni di cedimento, anzi, e che le soluzioni permettevano di eliminare le inefficienze organizzative: un utilizzo dei dati inusuale per le aziende italiane.

Sindacato e normativa

Tutto questo però, è bene chiarirlo, dovrebbe avvenire in presenza di un accordo sindacale. Perché se il singolo negozio con un dipendente e la videocamera può fare a meno dell’intesa con i rappresentanti dei lavoratori che non riescono a incidere su una realtà così piccola, l’azienda non può utilizzarli come strumenti di controllo in modo unilaterale.

La normativa di riferimento ci porta indietro nel tempo, allo Statuto dei lavoratori che all’art. 4 che vieta l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Ad esso ha fatto seguito il Jobs act (10 dicembre 2014, n. 183) dove in sostanza si dice che gli strumenti di controllo possono essere utilizzati, previo accordo sindacale, tranne quando questi strumenti servono al lavoratore per la sua prestazione e per gli strumenti per accessi e presenze.

Una circolare del Ministero del Lavoro del 18 giugno 2015, spiega Virginia Montrasio della Camera del Lavoro di Milano, ha ulteriormente chiarito la situazione dicendo che “l’accordo sindacale non serve se e nella misura in cui lo strumento viene considerato quale mezzo utile per adempiere la prestazione. Questo significa che nel momento in cui tale strumento viene modificato con software di geolocalizzazione o filtraggio si fuoriesce dall’ambito della disposizione e i software diventano strumenti che servono al datore di lavoro per controllare la prestazione. Le modifiche, quindi, possono avvenire solo in caso di particolari esigenze, accordo sindacale o con autorizzazione. La cosa non cambia se si parla di singolo lavoratore o gruppi di lavoratori”.

activtrax

ActivTrak mostra dettagliatamente come il lavoratore ha impiegato il suo tempo, etichettando applicazioni e siti web come produttivi o improduttivi.

La posizione della Cgil è che il “controllo a distanza è comunque sempre vietato e che l’accordo sindacale non lo autorizza ma autorizza l’installazione di strumenti dai quali potrebbe derivare il rischio di controllo a distanza”. In sostanza il Ministero del Lavoro ha circoscritto la liberalizzazione dei controlli datoriali limitandone l’uso, chiarendo che pc, tablet e cellulari non sono strumenti per il controllo a distanza ma servono per “rendere la prestazione lavorativa”. Un monitoraggio dell’attività degli strumenti è spesso necessario per garantire la sicurezza e per statistiche di utilizzo, ma l’installazione di software specifici che permettono il controllo a distanza dettagliato del lavoratore non è consentita.

La raccolta delle informazioni

Chi decide se il tale software effettua o meno il controllo a distanza? Qui si entra nel campo della trattativa e dei rapporti di forza in azienda. Se il dipendente del singolo negozio con videocamera nulla può fare, diversa è la situazione di aziende sindacalizzate dove in caso di mancato accordo – perché non è stato raggiunto o perché non c’è rappresentanza sindacale in azienda – l’installazione degli impianti e degli strumenti in questione deve essere autorizzata dall’Ispettorato del Lavoro. Se poi l’azienda procede in maniera unilaterale il sindacato può rispondere in sede giudiziaria. “Ma è una sconfitta per tutti”, aggiunge la sindacalista “anche perché le decisioni dei giudici variano anche in funzione del contesto”.

La videocamera è un caso classico, ma anche con la videochiamata si entra in un terreno minato. Le informazioni raccolte in maniera lecita con questi software, infatti, sono utilizzabili ai fini del rapporto di lavoro e quindi anche per eventuali sanzioni. L’azienda però deve aderire al Regolamento UE 2016/679 e con il nuovo Codice Privacy che stabilisce la necessità della informativa al lavoratore. In caso contrario i dati raccolti non sono utilizzabili.

L’adeguata informativa deve spiegare in modo chiaro e senza formule generiche, per esempio, che è stato installato uno strumento nel pc, a cosa serve, le informazioni raccolte, che i dati possono essere utilizzati dal datore di lavoro per migliorare la produttività e altro. Le informazioni devono essere pubblicizzate in maniera adeguata anche tramite affissioni sui luoghi di lavoro e sottoposte ad aggiornamento periodico. Il tema per il sindacato è molto caldo. A partire dai contratti di lavoro nazionali agli accordi nelle singole aziende, lo smart working e l’introduzione di nuove tecnologie (pensiamo anche all’Idustria 4.0 fino ad arrivare all’algoritmo che regola l’attività dei rider) rappresentano una nuova frontiera delle organizzazioni dei lavoratori con la quale le aziende dovranno fare i conti.

L’atteggiamento non è di pregiudiziale antagonismo all’high tech, ma di un cammino concordato perché l’impegno verso il bilanciamento casa-lavoro sia tale e non significhi solo mero controllo.